Scrive il New York Times che quando nel 1994 Martin Parr era in lizza per entrare a pieno titolo nella Magnum, una delle agenzie fotografiche più importanti al mondo, ci si mise di mezzo il fotoreporter Philip Jones Griffiths con una lettera in cui spiegava la sua contrarietà: «Lasciatemi dire che ho un grande rispetto per lui come nemico dedicato di tutto quello in cui credo e, confido, in cui crede ancora Magnum». Secondo Parr, Griffith si riferiva all’aspirazione umanistica del foto-giornalismo a cambiare il mondo, mentre «il mio compito è osservarlo e darne un’interpretazione personale», commentava.
Negli anni, questo approccio gli ha conferito la sua signature inconfondibile – e anche piuttosto imitata – ma questo non gli ha risparmiato critiche. «Kitsch non è una parola che fa parte del mio vocabolario» ha dichiarato di recente. «Oggi come oggi è molto facile essere un fotografo del kitsch, e credo che sia una versione un po’ pigra di ciò che la gente pensa di me». E del resto è vero che le immagini di Martin Parr si amano o si odiano ma – al di là del bene e del male – il fotografo, originario di Epsom nel Regno Unito, è divenuto interprete d’eccellenza della fotografia nell’era postmoderna; un archeologo del quotidiano intento a immortalare usi e costumi, ordinarie stranezze, vizi e virtù – ma più vizi che virtù – di un’umanità senza filtri, mettendosi sul suo stesso piano. «Non voglio far parte di un’élite. Mi fa molto piacere che le mie fotografie siano esposte al Pompidou o alla Tate, ma provo altrettanto piacere, ad esempio, nell’organizzare una mostra al circolo dei lavoratori di Cardiff. Credo davvero nel carattere democratico della fotografia, nel suo riuscire ad abbracciare la cultura alta come quella bassa» dice ancora il fotografo.